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La ragazza con la sordina
19 settembre 2007


 

Ho scoperto che la mia voce aveva vissuto per prima i conflitti inconfessati tra mio padre e mia madre quando tutti, alle Scuole Medie mi chiedevano di parlare più forte e mia madre si arrabbiava con me perché pensava che io bisbigliassi per dispetto. In realtà, tra i dodici e i quindici anni ho adottato inconsapevolmente una sordina.

Da grande, praticando una seppur clemente ma continua autoanalisi, ho scoperto che, siccome all’interno della mia famiglia non avevo “voce in capitolo”, tanto valeva non sprecassi il fiato inutilmente. Quello che credo sia successo in seguito è ciò che accade agli atleti che fanno soste forzate per incidenti...si ritrovano a iniziare da capo. Così a vent’anni, quando ho pensato di poter muovere i miei passi indipendenti nel mondo, non solo ero assolutamente asservita alla mia maleducazione borghese familiare, ma ero anche senza voce, o meglio, la mia voce inutilizzata era rimasta come colore e come intensità quella di una bambina di dodici anni, cioè la vocina del mio inutile silenzio di protesta.

Il matrimonio affrontato giovanissima non mi ha liberata per niente, il divorzio dopo cinque anni ancora meno. La morte di mio padre mi ha consegnato la necessità di capire qualcosa in più della mia voce, anche perché in quel periodo, casualmente, mi sono ritrovata sui palcoscenici dell’opera lirica.

Gradualmente mi sono accorta che la danza classica, che ho studiato e praticato per l’appunto dai dodici ai trent’anni, ha collaborato notevolmente con la mia sordina. Trovavo nell’elegante, stereotipata espressione del mio corpo una valida sostituzione al vivere le emozioni più direttamente e sinceramente. Le poche volte che ho osato lasciarmi andare, che fosse amore, lavoro, amicizia... sono avvenuti disastri epocali, che adesso so essersi prodotti per l’assoluta inesperienza, per la duratura e insistita non navigazione nel mondo dei miei sentimenti più profondi e per la non mediata espressione di quei sentimenti stessi. Insomma, non ho mai vissuto la mia verità.

Credo che in famiglia abbiano compiuto ogni tentativo possibile per sviarmi dalla mia propensione verso l’arte, per spingermi verso una professione concreta, come l’impiego in banca, che alla fine credo sia costato il cancro a mio padre. Il problema è stato anche aggravato dal fatto che in famiglia un artista c’era già, nella persona del mio fratello maggiore pianista e bambino prodigio, che adesso mi appare in tutta la sua verità di “esiliato molto capace nella musica”, eccellenza che gli ha valso la tranquillità dalla critica continua dei genitori, ma anche non minor dolore e chiusure.

La danza classica ha costruito la mia corazza muscolare bella ed elegante. Per quanto riguarda la voce, quando ho cercato di fare qualche lezione di canto, spinta da un buon orecchio musicale e dalla frequentazione di cantanti, succedeva lo stesso che per le classi di danza: paura di sbagliare.

 Il non apprezzamento vissuto da bambina ha creato in me una volontà di eccellere che arrivava alla non produzione per evitare confronti ed errori. Ero falsamente non competitiva, avevo in realtà una paura fottuta di essere meno brava degli altri. Così la mia vocina si “autoreggeva” senza osare di produrre note stonate, sbagliate o semplicemente più vive, più in contatto con me stessa; così, come aggiustavo le mie posizioni alla sbarra, danzavo dietro ad altri per avere il conforto della memoria e non espormi troppo, evitavo anche di tirar fuori la voce per paura di sbagliare.

Mio padre, che ha urlato per quasi tutta la sua vita, è morto per un cancro ai polmoni che lo ha lasciato senza fiato. Nella sua ultima settimana di vita, produceva una serie di suoni molto bassi, simili a rantoli, che ancora ho nelle orecchie e che una brava insegnante di teatro  mi ha chiesto di riprodurre. Ho passato almeno cinque o sei anni a cercare quei suoni che non riuscivo a trovare nella mia gamma vocale. Io non riuscivo a produrre suoni gravi, perché la mia salvezza in ogni situazione è stata la fuga in alto: i sogni, i sovracuti.

Quando ho cominciato a lavorare nell’opera, prima come danzatrice, poi come aiuto-regista e coreografa, ho cominciato a rendermi conto che questa voce poteva avere un suo valore se solo avessi trovato una radice per agganciarla a me, al centro del mio corpo e alla terra.

Credo che dalla ricerca di queste radici, che partono dalla terra di Siena, dal profumo delle colline e dai mattoni rossi di Piazza del Campo, sia ripartita la mia nuova avventura esistenziale.

 Mi sono laureata dopo ventun’anni di fuori corso, per dare una conclusione alla cosa più evidentemente non conclusa della mia vita e, affrontando con serietà e allegria questo scoglio, superato brillantemente, ho capito finalmente che potevo aprire il mio mondo leggero, aereo, anche un po’ inconsistente, alla razionalità, alla concretezza, senza perdere neanche una briciola della mia capacità creativa, quella che mi ha sempre tratta in salvo nei momenti duri della vita.

Allora ho cominciato, dal corpo, a trovare un assetto diverso da quello che la danza classica mi aveva assegnato: ho chiuso le punte dei piedi, ho lasciato la mia curva lombare nella sua posizione naturale. Il mio collo proteso paurosamente in avanti è tornato verticale, liberando i trapezi e le scapole. A questo punto è arrivato l’incontro con Vittoria Lìcari. Desunta dal sito del Conservatorio di Mantova come una delle poche persone che insegnano arte scenica in maniera creativa e completa, l’ho contattata sfidando qualunque mia ritrosia precedente, mi sono presentata a lei con la mia tesi, con la semplicità e la sfrontatezza del desiderio di uno scambio fruttuoso. E la mia intuizione è stata ottima. Con Vittoria ho riprovato a cantare dopo tanto tempo e ho avuto la prova che anche la mia voce poteva trovare un terreno di radicamento e concretezza che non avrei mai creduto possibile. Così, attraverso la lettura e le lezioni di Vittoria, mi è stato concesso di avvertire la sensazione fisica interiore del mio cantare, del mio produrre suono, e quello che probabilmente non riusciva a verificarsi quando danzavo in maniera accademica e poco sincera è finalmente successo con la voce,  ho trovato la radice nel mio corpo attraverso di essa.

La sensazione fisica provata durante uno stage con Vittoria è stata sentire di avere delle ventose sotto i piedi e una sorta di cappa aspirante sulla testa: attratta dall’alto e dal basso “mi sentivo suono”. Ero anche sorpresa in maniera del tutto piacevole, tanto che mi veniva da ridere durante l’esercizio nonostante la fatica; non credevo proprio di poter possedere un tal volume di voce!

Quindi Vittoria mi ha guidata come se io dovessi, per suo incarico, andare dentro di me, cercare quella voce e portarla fuori, attraverso differenti esercizi che mi hanno messa in contatto con parti poco conosciute del mio corpo. Sentivo di dover lottare mentre cantavo, per non fuggire di nuovo verso l’alto, e credo che in quel momento, quando Vittoria mi ha costretta a restare con i piedi radicati per terra, lei mi abbia garantito la sicurezza; finalmente non ho temuto di cantare le mie note centrali, al contrario, mi trovavo in un territorio sconosciuto, ma confortante, e la sicurezza era la mia verticale, la colonna di suono che sentivo dai piedi ai capelli.

Pratico il Qi Gong e uso alcuni esercizi di respirazione per i giovani cantanti ai quali mi capita di insegnare. Ho trovato dei punti di contatto molto interessanti tra il modo nuovo nel quale il mio corpo si muove adesso e  che non ha niente di esteriore, di vagamente bello o esteticamente valorizzabile, e il modo col quale Vittoria ha fatto lavorare il mio fiato. È come se nella vita di adesso, che sicuramente mi corrisponde molto di più rispetto alla mia giovinezza, la qualità di movimento che vivo corrisponda maggiormente alla qualità della voce che parlo e che canto, e questo mi dà una misura di completezza e di stabilità che mi rende felice.

Vittoria mi ha detto che la mia voce non aveva più niente della “bambina”, e io so che finalmente abbiamo disinnescato la sordina.

 

Susanna Guerrini

 

 

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