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TEATRO ALLA SCALA. CAVALLERIA RUSTICANA
31 gennaio 2011


 

TEATRO ALLA SCALA. CAVALLERIA RUSTICANA

            Essendo un atto unico non sufficientemente lungo da poter coprire una intera serata, Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni viene di solito rappresentata come parte di un dittico il cui altro elemento è nella maggior parte dei casi costituito da Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, in quanto le due opere presentano diversi elementi drammaturgici comuni: l’ambientazione in un piccolo paese, l’estrazione umile dei personaggi, la violenza delle passioni, il fatto di sangue che viene a turbare un momento di festa. Questa volta, invece, Cavalleria è stata rappresentata in coda a due pièces ballettistiche di tutt’altro tenore: Le Spectre de la rose coreografato da Michail Fokin sulla musica dell’Aufforderung zum Tanz di Carl Maria von Weber e La rose malade di Roland Petit sull’Adagetto della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler. Questa combinazione, all’apparenza stravagante, ha invece favorito un insolito approccio alla partitura di Mascagni, isolandola dal confronto con un altro melodramma dalle caratteristiche più o meno simili e, conseguentemente, da un certo effetto di amplificazione e di distorsione percettiva dell’uno nei confronti dell’altro. Cavalleria rusticana è emersa così nella sua dimensione tragica più autentica, che la accomuna appunto al mondo della tragedia greca per come l’agire umano altro non sembra essere che l’innesco di un meccanismo fatale estraneo alla volontà dell’agente. La regia di Mario Martone – con scene di Sergio Tramonti, costumi di Ursula Patzak e luci di Pasquale Mari – che al suo debutto nel 2011 poteva suscitare qualche perplessità per l’assenza “della dimensione solare insita nella musica a creare contrasto con la crudezza della vicenda” – così avevo scritto a suo tempo – è risultata quindi valorizzata proprio dall’assenza di confronti immediati e di influenze “subliminali”. La dimensione tragica è stata particolarmente esaltata dalla interpretazione magistrale di Elena Zilio nella parte di Lucia e dalla parola sobriamente scolpita del baritono Vitalyi Bilyy in quella di Alfio. Rientravano nella normalità di una buona prestazione la Santuzza di Liudmyla Monastyrska e la Lola di Valeria Tornatore. Un po’ troppo “urlato” il Turiddu di Jorge de León. La lettura di Daniel Harding è stata molto convincente, compatta, ma anche ricca di sfumature e sorretta dalla giusta energia.

 

Vittoria Lìcari

 

 

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